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AzzeccaGarbugli 05-10-2008 00.34.59

Maggiorenni: fino a quando è obbligatorio mantenerli?
 
3 Allegato/i
Introduzione

E’ uno degli argomenti più spinosi dell’ultimo decennio, strettamente collegato alla mutata funzione sociale della famiglia oltre che alla complessità di problematiche che circondano il mondo della scuola e del lavoro, quali allungamento del percorso di studi, difficoltà a trovare un lavoro, aumento della competitività, necessità di ampliare costantemente le proprie conoscenze ed esperienze in modo da potersi adattare alla crescente flessibilità del mercato del lavoro, mancanza di abitazioni economicamente accessibili … tutti ostacoli al raggiungimento da parte dei giovani di un’autosufficienza economica piena .

E senza il raggiungimento di questa piena autonomia, la convivenza dei figli con i genitori dura più a lungo rispetto al passato, la permanenza in famiglia si pone come (quasi) inevitabile, con grave disagio e difficoltà (talvolta di natura economica) anche per i genitori, che spesso diventano tali non più giovanissimi e si trovano sempre più anziani a convivere con l’angosciosa incertezza sul futuro dei figli.
Quando la forzata convivenza tra genitori e figli ed il forzato mantenimento si sviluppa in una famiglia "regolare", i disagi e i relativi, pur sempre seri, conflitti restano per lo più confinati all’interno della stessa .
In presenza di separazioni e divorzi con assegni di mantenimento del figlio/i posti a carico del genitore non convivente, corrispondente diritto del genitore affidatario e convivente ad ottenerne il versamento, difficoltà economiche per impossibilità di mantenere la prima e la eventuale nuova famiglia… padri spesso costretti a scegliere tra figli di primo o secondo letto, ex mogli e mogli che sobillano e mettono sale sulle ferite, la grande guerra della famiglia allargata, è di questi conflitti che viene sempre più spesso interessata la magistratura.
Gli interventi dei giudici sono infatti conseguenti ad azioni giudiziarie promosse dal genitore interessato a far accertare giudizialmente di non essere più tenuto al mantenimento del figlio maggiorenne, magari convivente con l’altro genitore o, viceversa, azioni promosse dal genitore convivente o direttamente dal figlio nei confronti del genitore che ha arbitrariamente sospeso il versamento del contributo al mantenimento.
Mi sembra necessario premettere che con l’introduzione della legge sul divorzio e nella riforma del diritto di famiglia, il c.d. assegno di mantenimento sarebbe spettato solamente alla prole minorenne convivente col coniuge assegnatario della casa familiare. Inizialmente, infatti, la legge e la stessa giurisprudenza prendevano in considerazione solo la situazione dei figli che stante la minore età non risultavano in grado di provvedere autonomamente al proprio sostentamento. In questi ultimi decenni, con l’evoluzione della società ed il cambiamento dei costumi sopra accennati, si sono poste nuove esigenze che hanno portato all’estensione dell’assegno di mantenimento anche alla prole maggiorenne con problematiche che si riscontrano sia in contesti sociali in cui il figlio maggiorenne frequenta ancora gli studi compresi quelli universitari, sia in quelli in cui il figlio, conclusi o interrotti gli studi, è alla ricerca della sua prima occupazione e non è in grado di gestirsi autonomamente.
Questo profondo disagio sociale è stato pienamente recepito in campo giuridico e nei suoi numerosi interventi la giurisprudenza si è mostrata sempre più attenta e sensibile rispetto alle problematiche del mondo giovanile, quali appunto la realtà della precarietà dell’impiego e la conseguente precarietà del reddito che spesso impediscono al giovane di trovare una collocazione appropriata nella compagine sociale, pur nel rispetto dell’esigenza fortemente sentita di evitare l’insorgere di una specie di parassitismo dei figli nei confronti dei genitori. Conflitti difficili e decisioni della magistratura molto spesso altalenanti con un piatto della bilancia che troppe volte ha pesato a favore del giovane, rischiando che la pur doverosa solidarietà genitoriale si trasformi in una forma, inaccettabile, di estremo assistenzialismo.






E’ innanzitutto un dovere sancito dalla Costituzione .
E’ un obbligo di natura economica che grava sui genitori nei confronti dei figli e discende direttamente ed in via immediata dal rapporto di filiazione, quale affermazione di responsabilità legata alla procreazione, ciò secondo il disposto dell’art. 30 della Costituzione che sancisce il dovere ( e il diritto ) dei genitori a mantenere istruire ed educare i figli , anche se nati fuori del matrimonio.
Principio costituzionale pienamente recepito ed integrato dal legislatore che nell’art. 147 del codice civile ribadisce per i genitori l’obbligo di mantenere istruire ed educare la prole tendendo conto delle capacità , dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli.

Quindi con la (sola) procreazione, nascono in capo ai genitori , nei confronti di tutti i figli qualunque sia il loro status ( legittimi o naturali), un insieme di obblighi di natura morale e materiale in risposta ad esigenze di solidarietà e di etica dell’ordine familiare che fanno parte della coscienza sociale prima che del diritto. Accanto all’obbligo di natura non patrimoniale di educare ed istruire i figli, vi è un dovere di carattere economico dal contenuto molto ampio perché non si esaurisce nel procurare il cibo giornaliero e gli indumenti necessari, ma impone l’apprestamento di una organizzazione stabile in grado di garantire il soddisfacimento di tutte le esigenze del figlio in relazione alla sua crescita fisica, psichica e sociale.
Questo obbligo al mantenimento rientra nell’insieme di doveri costituenti la "funzione educativa" dei genitori ed è cosa diversa dalla potestà: è un "dovere inderogabile" che permane in capo ai genitori anche in caso di perdita o decadenza dalla potestà e che si estende oltre il raggiungimento da parte del figlio della maggiore età.
Infatti mentre i doveri di istruzione ed educazione si possono estinguere con il raggiungimento della maggior età del figlio, il dovere di mantenimento permane fino quando quest'ultimo, maggiorenne, raggiunge una propria indipendenza economica ed un appropriata collocazione nel contesto sociale .


Mantenimento fino a quando?

Lo chiedono molti genitori e la domanda è più che legittima perché, mentre vi è una norma di legge che stabilisce con certezza il momento in cui sorge in capo al genitore il dovere al mantenimento -- procreazione, nessuna norma dice quando questo obbligo cessa. La legge non fissa il momento finale, il termine massimo dell’obbligo.
Ora se da un lato è chiaro che l’obbligo al mantenimento non può prolungarsi illimitatamente (anche se da qualche scorato genitore è stato definito "mantenimento a vita ….." ), di fatto determinare concretamente questo limite non è per nulla semplice dato che il suo protrarsi è finalizzato al completamento degli studi e/o causato dalla oggettiva difficoltà per il giovane di inserirsi nel mondo del lavoro. La Cassazione ha così escluso che si possa a priori fissare perentoriamente un termine ultimo.
Correlativamente al dovere di mantenimento per il genitore, esiste però un dovere per il figlio di seguire con profitto un regolare corso di studi e cercare attivamente un lavoro, e ciò sul presupposto che nessun ordinamento può permettersi di premiare la pigrizia o l’inerzia del figlio maggiorenne.
Alla luce di questi diritti e obblighi "reciproci", spetta quindi al prudente apprezzamento del giudice, chiamato a decidere, il compito di individuare caso per caso, quando il diritto al mantenimento possa dirsi cessato.
Nonostante non esista un’ età prefissata, alcuni Tribunali hanno posto il venticinquesimo anno nel caso in cui il figlio non abbia proseguito con gli studi universitari, il trentesimo anno per chi ha scelto di conseguire una laurea, come spartiacque in quello che è l’onere della prova, nel senso che fino al compimento rispettivamente dei venticinque/trent'anni è il genitore che chiede la cessazione dell’obbligo al mantenimento a dover provare che il figlio non si è sufficientemente impegnato per il raggiungimento della propria autonomia economica . Oltre quell’età , sarà il figlio a dover provare di non aver raggiunto l’indipendenza per motivi non a lui imputabili. Decisioni rare, ripeto.
Al di fuori di queste sporadiche decisioni, dai giudici si sono ottenuti solo dei criteri di massima che riassuntivamente possono essere indicati in:
a)raggiungimento dell’indipendenza economica
b)persistere di uno stato di disoccupazione dovuto ad un colpevole atteggiamento di inerzia del figlio e dal suo rifiuto ingiustificato a svolgere un’attività lavorativa remunerata.

Criteri di massima che ad una prima lettura sembrano chiari, lineari e impostati sul buon senso, ma che proprio perché "di massima" hanno in realtà permesso ai giudici, nei loro molteplici interventi, di riempirli dei più vari e molto spesso contrastanti contenuti. Mancando un principio-criterio unico valido ed applicabile ad una determinata situazione, ogni singolo caso viene valutato a sé, il giudice procede, come accennato sopra, con un’indagine caso per caso e il genitore che per legge è tenuto al mantenimento , qualora ritenga che questo obbligo sia venuto meno, ha l’onere di provare concretamente in giudizio che il figlio è autosufficiente perché percepisce un reddito adeguato o che questi non lo percepisce per propria colpevole inerzia.
-Cosa si intende per indipendenza economica ?
Per la Corte di Cassazione( sent. nn.22214/04 , 8221/06 ,4188/06 ) l’autonomia economica può ritenersi raggiunta quando la percezione dei redditi risulta congrua, continuativa e non saltuaria e connessa ad attività collegata alla formazione cui il figlio è stato indirizzato.
Quindi non basta che il figlio guadagni, si deve essere in presenza di percezione di un reddito corrispondente alla professionalità acquisita e connessa allo svolgimento di un’attività lavorativa remunerata o quantomeno all’avvio verso di essa, ma con prospettive concrete tali da assicurare a questo figlio maggiorenne un introito stabile e sicuro anche per l’avvenire.
Si potrebbe allora dire che l’obbligo per il genitore cessa nel momento in cui il figlio abbia trovato un lavoro stabile che gli consenta un tenore di vita adeguato e dignitoso? ….No, talvolta ancora non basta ….. E’ del 25 settembre 2008 la sentenza della Cassazione che stabilisce che il lavoro deve essere ( anche ) consono alle "aspirazioni" del figlio.
Per questa sentenza l’obbligo al mantenimento dei figli sussiste anche se questi hanno rinunciato volontariamente ad un lavoro proprio perché non corrispondeva ai propri desideri ( figlio 20enne che svolgeva un’attività di lavoro dipendente quale disossatore di carni e che dopo qualche anno di attività si licenzia per poter iscriversi ad un corso di parrucchiere )e ciò motiva la Corte"…. alla luce della giovanissima età del figlio e soprattutto perché il licenziamento da parte del giovane era da inquadrarsi nella ricerca di aspirazioni lavorative più consone alle sue inclinazioni e dunque non vi è alcuna arbitrarietà nel comportamento del giovane o alcun atteggiamento parassitario".
-Quando si può dire che il figlio non si pone in condizione o si rifiuta ingiustificatamente di procurarsi un proprio reddito mediante l’espletamento di attività lavorativa e quindi non è in grado di provvedere alle proprie esigenze per colpa?
Il principio più sopra riportato del rispetto delle "aspirazioni" non è nuovo per la Cassazione che lo ha ampiamente sostenuto in una sentenza diretta all’accertamento della sussistenza della "colpa" del figlio, stabilendo che un genitore non può considerarsi esonerato dall’obbligo del mantenimento in presenza di una qualsiasi occasione di lavoro offerta al figlio, ma solo quando la proposta di lavoro risulti idonea rispetto alle concrete e ragionevoli aspettative del figlio e conseguentemente il suo rifiuto sia privo di giustificazione.
In questa molto discussa sentenza del 2002 i giudici hanno stabilito che la valutazione della sussistenza della "colpa" del figlio per il mancato raggiungimento dell’indipendenza economica, va effettuata tenuto conto "delle aspirazioni, del percorso scolastico , universitario e post universitario del soggetto", senza dimenticare "la situazione attuale del mercato del lavoro, con specifico riguardo al settore nel quale il soggetto abbia indirizzato la propria formazione e la propria specializzazione".
E pertanto secondo tale sentenza "deve in via generale escludersi che siano ravvisabili profili di colpa nella condotta del figlio che rifiuti una sistemazione lavorativa non adeguata rispetto a quella cui la sua specifica preparazione, le sue attitudini i suoi interessi siano rivolti (….)e sempre che tale atteggiamento di rifiuto sia compatibile con le condizioni economiche della famiglia".
Quindi se il giovane appartiene ad una famiglia agiata potrà rifiutare le offerte di lavoro che non ritiene adeguate alle proprie attitudini ed aspirazioni, nei limiti temporali in cui dette aspirazioni "abbiano una ragionevole possibilità di essere realizzate". Ora tenuto conto che il caso specifico esaminato dalla Corte di Cassazione riguardava un "ragazzo di circa trent'anni , laureato in giurisprudenza da tempo”", si comprende come questi indicati limiti temporali possono essere anche molto dilatati .








L’età quindi non conta. Non è sufficiente e comunque non basta.
Le impostazioni date in questi ultimi anni dalla magistratura, ossia di assicurare comunque ai figli un contributo in danaro finchè non raggiungono l’autonomia economica "purchè ciò non dipenda da un atteggiamento di inerzia o ingiustificato rifiuto del lavoro2 hanno portato molti addetti ai lavori a definire "prova diabolica" quella posta a carico del genitore che vuole porre fine al mantenimento.
Infatti, eccettuati i casi di un pessimo rendimento scolastico e quindi di un evidente inadeguato o nullo impegno profuso negli studi, casi di studenti "fuori corso" che frequentano l’Università a fatica, con poca voglia e pochissimi esami sul libretto, risulta senz’altro difficile se non impossibile per un genitore acquisire prove in tutti gli altri casi in cui un figlio "ci marcia" … quando ad esempio questi abbia rifiutato un’offerta di lavoro perché ritenuta non economicamente adeguata ( posto che difficilmente resta traccia di colloqui aziendali o delle relative proposte economiche ) o magari quando lo stesso riferisce di essere stato scartato dall’impresa senza altro motivo se non il suo mancato rientro nei profili aziendali…

Certo, come già detto, i giudici intervengono dove c'è disaccordo ed è innegabile che alla base delle esperienze affrontate ci sono storie di famiglie spesso in frantumi, con alle spalle separazioni e divorzi, battaglie legali combattute talvolta senza pudore alcuno sino all’ultimo centesimo in cui scopo finale è il denaro del genitore in un quadro di rapporti con i propri genitori che cambiano per paura che il tenore di vita scenda o che non sia più garantito.
Molte volte la separazione o il divorzio dei genitori diventa una scusa per avere di più, e così laurea, corsi di specializzazione, stage …non bastano perché molti sognano il vitalizio, una sorta di indennizzo per anni di litigi tra i genitori. Si sentono anche liberi di rifiutare lavori poco redditizi perché l’assegno rappresenta per loro l’ancora di salvezza , un sicuro riparo da scelte lavorative ritenute troppo spesso non all’altezza del loro curriculum.
In molti altri casi la richiesta di un figlio è un atto di giustizia nei confronti di padri che al primo impiego, spesso saltuario e mal pagato, pretendono l’immediata liberazione dagli impegni con il figlio maggiorenne, anche in presenza di lavoro in nero perché, dicono questi padri che si sentono tartassati, l’importante non è il lavoro, ma il guadagno e ciò sul presupposto che i tempi del lavoro fisso e garantito sono finiti …..


Distogliendo per un attimo i riflettori dalle famiglie di genitori separati o divorziati , qualcosa nella nostra società sembra effettivamente finito… certamente sono lontani i tempi in cui i giovani si sposavano presto e, volenti o nolenti, cercavano di realizzare la loro indipendenza economica assumendosi la loro responsabilità.
Oggi , di regola , le cose non stanno più così e l’ingresso del giovane nei ruoli adulti è molto dilazionato , si riscontra molto spesso una sorta di patologico prolungamento dello stato adolescenziale con un progressivo allungamento dei tempi in cui il figlio lascia la propria casa , magari ha già un lavoro , un legame affettivo ….ma resta in casa.
E di questa situazione di figli adulti ,talvolta ultratrentenni , ancora dipendenti dalle figure genitoriali, i maggiori responsabili sono padri e madri che hanno difficoltà a comprendere, come acutamente osservato da uno psicanalista, che è necessario spingere il figlio ad uscire di casa, a cimentarsi con i lavori che si trovano e non con quelli che ( figli e genitori ) sognano, che per crescere ed acquistare la necessaria sicurezza in se stessi i giovani debbono imparare ad accudirsi, a gestirsi e a darsi un ordine, esperienze insostituibili in un processo di formazione della personalità. Cominciare a confrontarsi con quello che si trova è comunque senz’altro più autentico e vitale di quelle sonnacchiose attese di un lavoro prestigioso adeguato e consono agli studi o alle inclinazioni, magari tra coccole e sospiri di comprensione di papà mamme e fidanzate.

Uno 05-10-2008 19.19.50

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